Salvate Mufasa, il leone bianco! E non fatelo diventare un trofeo comprato all’asta

Sul pianeta terra ne sono rimasti solo 300. La maggior parte vive prigioniera, tra zoo e parchi, o semilibera nei santuari. Solo 13 sono ancora liberi e selvaggi, così come sono nati. Ma invece di spazi aperti e libertà per Mufasa, uno di quei 300 leoni bianchi sopravvissuti, il rischio è agghiacciate: finire all’asta per essere venduto al miglior offerente che, dopo una finta caccia, si porterebbe a casa la sua testa con la sua straordinaria criniera bionda come trofeo da appendere in salotto. In Sudafrica, dove tutto ciò sta accadendo, si sono scatenate le proteste e una petizione ha già raccolto quasi 350 mila adesioni per scongiurare il pericolo e portare Mufasa in salvo, come merita.

Il giovane leone bianco, maestoso e bellissimo come solo i leoni bianchi riescono ad essere, è stato confiscato nel 2015 dalle forze dell’ordine ad una famiglia di Pretoria che lo teneva come animale domestico senza permesso. Per lui, che nel frattempo era stato affidato al Wild for Life Rehabilitation Center di Rustenburg in Sudafrica, la salvezza era davvero ad un passo. Era tutto pronto perché le porte del Sanwild, uno dei santuari sudafricani che si prendono cura dei loro leoni, si spalancassero per accoglierlo, e lì avrebbe potuto continuare a vivere per il resto dei suoi giorni grazie al sostentamento economico di Wild for Life.

Ma questo, probabilmente, non accadrà. Perché Mufasa appartiene ancora al National Conservation, dipartimento del ministero dell’ambiente sudafricano, che non solo non ha autorizzato il trasferimento di Mufasa e di un altro leone, Suraya, con cui è cresciuto in questi tre anni, al Sanwill ma ha anche annunciato che lo avrebbe presto messo all’asta per «raccogliere fondi per il dipartimento».

Mufasa e Suraya, il suo compagno di sventura nella possibile vendita all’asta (creditphoto: @wildforlife)

Il Wild for Life Rehabilitation Center di Rustenburg sta facendo di tutto per scongiurare il pericolo che il leone finisca nella rete dei cacciatori di trofei che spacciano per sport la “caccia in scatola”, come viene chiamata la tristemente nota pratica di partecipare a sanguinosi safari in Africa durante i quali si cacciano leoni rinchiusi in gabbie, molto spesso addomesticati con farmaci rilassanti. La “caccia in scatola” offre infatti la possibilità di acquistare, pagando cifre molto considerevoli, una preda che verrà messa nelle condizioni di essere uccisa dal cacciatore, senza possibilità di scampo alcuno. Proprio questo sembra essere il rischio maggiore che corre Mufasa, come ha sottolineato al quotidiano Pretoria News in un’intervista Carel Zietsman, avvocato del Wild for Life Rehabilitation Center. «Ci sarebbero solo due mercati per Mufasa: messo all’asta per essere cacciato o massacrato ed esportato come rara testa di leone» ha spiegato infatti l’avvocato. «Riteniamo che il Dipartimento responsabile della conservazione della natura abbia l’obbligo morale e legale di occuparsi degli animali selvatici. Il centro di riabilitazione in cui è tenuto Mufasa ha ricevuto dal tribunale una lettera che vieta il suo trasferimento nel santuario. Cosa a cui noi ci opponiamo perché riteniamo che Mufasa e Suraya – l’altro leone che condivide la sorte del leone bianco dal quale è diventato ormai inseparabile – abbiano diritto di vivere il resto delle loro vite naturali in un santuario».

La speranza è che la mobilitazione pubblica, la raccolta firme e gli impegni presi dal santuario  Sanwild e dall’associazione Wild for life, possano bastare al dipartimento del Ministero per bloccare la vendita di Mufasa. Permettendogli di godersi la lunga vita che ha ancora davanti, senza diventare un altro inutile trofeo sopra un caminetto texano.

 

 

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