Mondi da salvare: a Roma le foto di Greenpeace

ROMA – «Abbandonare carbone, petrolio e gas e accelerare la transizione energetica verso un mondo totalmente rinnovabile, oltre che diminuire il consumo di carne e fermare la deforestazione». Non ci sono trucchi, non ci sono scorciatoie. Questa è l’unica alternativa possibile, l’ultima via percorribile prima che il mondo muoia. Lo spiega senza mezzi termini Luca Iacoboni, responsabile della campagna Clima di Greenpeace Italia che ha inaugurato oggi a Roma “Vento, caldo, pioggia, tempesta. Istantanee di vita e ambiente nell’era dei cambiamenti climatici”, al Museo di Roma in Trastevere fino al 10 marzo 2019.

«Il Ghiacciaio dei Forni era uno dei più grandi ghiacciai italiani, ma oggi praticamente non esiste più, è un malato quasi terminale», spiega Claudio Smiraglia che da quarant’anni lo studia. «Nell’arco di poco più di un secolo ha infatti perso quasi la metà della sua superficie. A metà dell’Ottocento copriva circa 20 chilometri quadrati, oggi invece si estende per poco più di 10 chilometri quadrati. Se non cambierà la situazione climatica, entro fine secolo il ghiacciaio si ridurrà a pezzetti di ghiaccio ad alta quota».

In mostra cinquanta immagini che provengono da tutto il mondo, perché il cambiamento di clima e la conseguente alterazione degli antichi e originali equilibri, non è roba per poveri o per il sud del mondo. Riguarda tutti, bianchi e neri, e ovunque. Senza distinzione di nazionalità e di latitudini. Quindi dalla siccità nel Sud Italia all’acqua alta a Venezia, dal tifone Hayan che ha devastato le Filippine all’innalzamento del livello del mare nelle isole del Pacifico, non ci sono sconti per nessuno e tutti sono chiamati a responsabilizzarsi.

«Nubifragi, ondate di calore, siccità e tutti i fenomeni meteorologici estremi sono sempre più intensi e frequenti proprio a causa dei cambiamenti climatici» continua Iacoboni. Le foto li raccontano con la consueta lucidità dell’arte fotografica. Testimoniano la siccità in India, ad esempio, dove il lago del villaggio indiano di Khomnal, nell’area di Mangalwheda, nel marzo 2016, si presenta completamente secco, come non lo è mai stato in nessun periodo dell’anno. Raccontano la devastazione provocata dagli incendi in California, dove “Holy” si è propagato nelle zone cespugliose e aride tra le regioni di Orange e Riverside, provocando l’evacuazione di oltre 20 mila persone e bruciando, nell’agosto 2018, più di 21.473 ettari di foresta, dopo essere stato appiccato in modo doloso. Fotografano la disperazione di Zhang Dadi, un agricoltore cinese che prega perché la pioggia cada sul suo campo di grano, perché la desertificazione porta con sé gravi danni, impoverimento e quindi malcontento e disordini sociali.

Poi però c’è la speranza. È quella che trasmette l’immagine di Pedro Armestre in cui il nostro compositore e pianista Ludovico Einaudi suona il suo piano circondato dal bianco accecante dell’Oceano Artico.  Sta eseguendo una sua opera su una piattaforma galleggiante, di fronte al ghiacciaio Wahlenbergbreen. La composizione, intitolata “Elegy for the Arctic”, è ispirata dalle oltre otto milioni di persone che su tutto il Pianeta chiedono la protezione dell’Artico. L’immagine, con il pianista galleggiante in un mare di ghiaccio, è surreale ma delicata e struggente nello stesso tempo. Infinitamente suggestiva nel tentativo di ricomporre un equilibrio, quello fra uomo e la natura, che invece per molti versi appare irrimediabilmente corrotto.

 

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